TEARS FOR FEARS I NOBILI DEL POP
Repubblica — 22 marzo 1990 pagina 40 sezione: MUSICA
TORINO Sono arrivati in Italia sull' onda del successo di quel gioiello beatlesiano che è Sowing the seeds of love. Roland Orzabal e Curt Smith, ovvero i Tears For Fears, sono ora decisi a conquistarsi anche un pubblico da concerto, dopo aver occupato grandi fette di mercato discografico. E non è una strada facilissima. Come è noto vendere molti dischi e spopolare dal vivo, possono anche essere due cose diverse. E così dopo i quarantamila giovani che li hanno acclamati a Londra, per il debutto italiano hanno dovuto accontentarsi di duemila persone, ma Torino è notoriamente una piazza difficile. Meglio promettono le prossime date, Treviso, Milano, Firenze e infine Roma, dove il 28 si chiuderà il tour. La diffidenza è giustificata dal fatto che i Tears For Fears appaiono soprattutto come una tipica band da superproduzione discografica. Di più, potremmo dire che appartengono, oggi più che mai, a quella singolare aristocrazia della musica pop che si è creata negli anni Ottanta in Inghilterra, una raffinata casta di stilisti della musica che ha evitato gli accenti del rock passionale, che ha glissato sul culto del working class hero, ma che tutto sommato ha evitato anche le fatue insidie delle musichette per adolescenti. E' PIUTTOSTO un' area di fantasie cromatiche, di morbide suggestioni sonore, di eleganti soluzioni armoniche, della quale fanno parte, seppur con segno diversissimo, gruppi come Prefab Sprout, Scritti Politti e, per l' appunto, i Tears For Fears. Certo, Smith e Orzabal non hanno l' estro e soprattutto i vezzi intellettuali dei Prefab Sprout, e neanche quella sofisticata intelaiatura ritmica degli Scritti Politti che ha incantato perfino Miles Davis. Ma vantano un formidabile gusto melodico, rarissimo nella musica inglese, e la capacità di costruire affascinanti scenari sonori. Rimane il fatto, però, che da bravi aristocratici, hanno a lungo evitato la dimensione on the road. Dando piuttosto un' enorme importanza al prodotto disco, affrontandolo come una megaproduzione per la quale si possono impiegare anche due o tre anni di lavoro. Un vero e proprio kolossal il cui risultato è di sorprendente perfezione, accuratissimo, perfino maniacale. Ma dal vivo è tutt' un' altra storia. Per affrontare il tour, i Tears For Fears hanno messo in piedi una potente band, ricchissima di supporti solistici. Oltre a Smith e Orzabal (voci leader e rispettivamente basso e chitarra) ci sono due vocaliste, tra cui la ben nota Adele Bertei, più sax, tastiere e percussioni. Ma una menzione speciale la merita la cantante e pianista Oleta Adams, scoperta dai due in un oscuro locale di Kansas City, colei che a quanto dichiarano li avrebbe fatti rinsavire da una serie di smarrimenti tecnologici e riportati sulla retta via della passione, della comunicazione. Ed effettivamente la Adams ha una vitalità straordinaria, riempie di calore e di antiche radici gospel l' aristocratico pop dei Tears For Fears. Ma anche Orzabal e Smith sono piuttosto bravi a scaldare progressivamente l' atmosfera, inizialmente troppo confezionata, soprattutto quando con Woman in chains attaccano i brani del nuovo album. Da qui in poi è tutto un crescendo di entusiasmo, passando per Advice for the young at heart, Badman' s song e altre. Così come quando propongono Famous last words, la canzone che chiude il nuovo album su toni amari, con una specie di fine del mondo prefigurata in un intimo ambiente di una coppia in amore. Visto che la canzone termina col verso canteremo, quando tutti i santi si mettono in marcia, diventa un pretesto per una jam collettiva sul tema ultraclassico di When the saints go marching in. Tutto il concerto va a crescere e ovviamente culmina proprio con Sowing the seeds of love, straordinaria rivisitazione dello stile dei Beatles più psichedelici dell' epoca di I' m the walrus, a cui per giusta associazione segue la citazione di All you need is love, cantata in coro da tutto il gruppo. E poi si chiude entusiasticamente con Everybody wants to rule the world e Shout reinventata con spunti rap. Tutto sommato una piacevole occasione di festa in musica. Se non fosse che almeno un particolare, non secondario, getta una luce piuttosto singolare su questo concerto palesemente concepito per spandere nell' aria quelle che una volta si chiamavano buone vibrazioni. Ed è il fatto che i due leader riescono a non guardarsi neppure una volta per l' intera durata del concerto. Ognuno dei due gioca e si diverte con tutti gli altri del gruppo, ma tra di loro si comportano come perfetti estranei. Non uno sguardo, non un cenno d' intesa, il che salta talmente agli occhi da non essere più solo una noticina di costume. Se è vero, come dice la canzone dei Beatles riproposta in concerto, che tutto quello di cui abbiamo bisogno è amore, perchè non cominciano da se stessi? - di GINO CASTALDO